Gen 27

LAMPI AL PARABRISE

In Genova per noi Paolo Conte, dopo averci fatto tornare “ai nostri temporali”, ci dice che per noi, qui e ora, “il sole è un lampo giallo al parabrise”. E ci colloca subito (noi) in ambito, potremmo dire, minimalista (già che ci troviamo a parlare di arte). Sicuramente il Grande Astigiano aveva e ha le sue buone ragioni per dire le stupende cose che diceva in quella canzone. Noi. Quelli della profonda provincia piemontese. Che, però, credo, è simile un po’ a tutte le province del mondo. Dove (mi sia permesso citare l’incipit al mio romanzo Nero di Spagna) “non sempre è piacevole nascere e può anche essere difficile vivere”.
Bene: per Guido Palmero è tutt’altra cosa. Ben radicato nella sua Saluzzo, fatto il passo nell’agone artistico, compiuto un rapido inventario delle forze in campo, ha affrontato un problema artistico non da poco. Basilare, forse: quello della definizione dello spazio pittorico. E’ così, c’è poco da fare: ha preso il toro per le corna e nel suo fare pittura ha cercato, con indubbio successo, di calare quella problematica che ha affascinato il mondo e l’arte sin dagli Egizi (e poi, via via, i mosaici dei Greci e dei Romani, il Trecento coi suoi trittici e polittici, le finestre di Brunelleschi e Alberti, gli altari a sportelli dell’Europa continentale e la cornice a cassetta del Rinascimento, via via, sino a tutti quelli che le cornici le hanno dipinte e superate, sino a Seurat, Klee e Mondrian, etc.) nella modernità. Quella più semplice e attuale, ancorché pervasiva e, potremmo dire, quasi ossessiva. Lo Status Symbol per eccellenza della nostra epoca.
Sì: lo spazio della modernità, il perimetro che delimita la figurazione, il campo nel quale si evidenziano figure e sensazioni, stati d’animo e relazioni, glorie e miserie quotidiane è l’AUTOMOBILE. Proprio quello: l’aggeggio infernale che ci accompagna e ci ospita. Nel quale non solo ci spostiamo ma parliamo, telefoniamo, mangiamo, facciamo persino l’amore. Pensiamo, sicuramente. Macinando chilometri, fermi al semaforo, smoccolando in un ingorgo, sussultando nella coda. Rischiando la vita, anche.
Pensatoio, quindi, cucina, tinello, alcova, studio, sala di musica. Talvolta e troppo spesso, ahimé, bara.
E’ l’uovo di colombo. E’ una verità evidente a tutti. Non so se altri artisti figurativi ci avessero già pensato: tutto è già stato detto e fatto. Quello che contraddistingue il lavoro di Palmero è, probabilmente, oltre alla pensata indubbiamente geniale, il fatto di aver messo al servizio dell’idea di fondo, la sua “tecnica particolarmente precisa e attenta, utilizzata per realizzare fisionomie, gesti e posture capaci di svelare soprattutto le relazioni dei personaggi, a volte anonimi e in altri casi assolutamente noti”, come ha scritto Anna Pironti.
Tra mille quadri celebri che potrebbero essere sostegno ed esemplificazione di questo discorso, (quello concernente la basilarità del problema dello spazio pittorico) sarebbe bello poter considerare per un attimo una piccola, straordinaria opera di Antonello da Messina, ospitata dalla National Gallery di Londra.
Si tratta di un San Gerolamo nello studio nel quale il santo, lungi dall’essere il trafelato eremita di tanti altri ritratti, è invece un ordinato cardinale che studia. La pulizia, la perfezione, la calma che quel dipinto trasmette sono indubbiamente un portato della rigorosissima costruzione della scena,
a cominciare dall’oggettivazione derivante dal fatto che l’insieme è respinto all’interno dall’arco ribassato che incornicia la composizione. Non è quindi la figura che domina lo spazio ma lo spazio costruito che “trova” la figura e anche le innumerevoli suppellettili, compreso l’immancabile leone, sepolto in un’ombra dello scrittoio al quale il santo-studioso è assiso, circondato dai suoi ninnoli simbolici.
Lo spazio del parabrezza, o del lunotto posteriore, o dei vetri laterali “trova” le figure di Palmero. Un’architettura elementare, divenuta ormai un archetipo, dà il senso e il ruolo di ognuno, con le sue suppellettili e i suoi attrezzi. I parafernalia che ci trasciniamo dietro e che ci connotano e definiscono.
Le moto sono più sbarazzine ma solo apparentemente perché l’esigenza è la stessa. Ci sfrecciano accanto, i moderni centauri, e farci un’opinione di loro è questione di un momento. La percezione che di loro abbiamo è pur sempre mediata attraverso la “nostra” e la “loro” cornice.
Cinema. Non è un caso che una delle prime uscite della carriera espositiva recente di Palmero sia avvenuta nel ridotto di un cinema, né che una delle sue prime importanti mostre abbia avuto luogo in una galleria della Côte d’Azur.
Il cinema è uno dei primi momenti nei quali l’automobile ha trovato la sua esaltazione come luogo della vita. Piaccia o non piaccia, chilometri di pellicola sono stati girati a esaltazione del mezzo, della sua funzione. Il cinema ha connotato caratteri, divi e azione, VITA, attraverso i vetri delle automobili.
E la Costa Azzura. Sarà un caso che la regina delle automobili, la Rolls, abbia in produzione, da decenni, uno dei suoi modelli più fortemente simbolici che si chiama Corniche, come le spettacolari strade che percorrono, appunto, la Costa Azzurra ma anche come “cornice”, ambito, spazio che delimita e nel quale si recita e si vive?
Così, a Guido non resta che augurare di percorrere in Rolls le Corniches all’ombra delle quali la sua carriera espositiva è nata, certi che, anche nell’immancabile successo che gli arriderà, ogni tanto, non potrà fare ameno di intravedere un lampo giallo al parabrise. Memento, forse, di un sole di casa nostra.
Roberto Baravalle